Andare da Pipero è un pò come andare a scuola: ogni volta si impara qualcosa. Entriamo e la sala è piena di italiani a tutti i tavoli, quando fino a pochi mesi fa la metà erano sempre stranieri. I problemi li ha avuti lui, e li ha ancora, come tutti gli altri, ma di certo sa come affrontarli. I meriti sono tanti, la sua accoglienza è leggendaria, il servizio di sala ti segue al tavolo con i guanti coccolandoti senza nemmeno fartelo pesare, e anche in cucina Ciro Scamardella con i suoi si destreggia ad alti livelli. E’ curioso come la cucina di Pipero sia avvertita e citata come “cucina romana”, (c’è anche questa, pensiamo alla mitica “carbonara”), ma qui c’è ben altro, direi rimandi di “grande cuisine” come in pochi altri luoghi di città. Pensiamo ad esempio all’ineffabile ed elegante terrina di foiegras e funghi che potresti essere in un tre stelle parigino, o alla perfetta salsa chamapgne che fa passare quasi in secondo piano il buon rombo. Una cucina che non insegue il rischio inutile, che spesso non paga, ma che si apprezza nello scorrere della cena, dalla serie di finger foods iniziali (forse solo un pò troppo invadenti), alla buonissima tartara e al risotto ben equilibrato. Meno convincente ci sono sembrati i ravioli (troppo sapidi e concentrati), e torniamo in alto con il sopracitato rombo e la dolce animella ben contrastata dal wasabi. Si chiude con i dessert, buoni, ma li vorremmo un tantino più spettacolari.
Ristorazione&Ospitalità
Ci ha lasciato un grande amico, un cuore generoso, un gastronomo raffinato. Tante le passioni in comune, perfino nei dettagli. Come il sottoscritto, se sentiva di un locale sperduto tra i monti ma con cucina interessante, lui il giorno dopo era là, magari anche a 500 km di distanza. E, se era valido, mi telefonava allegro e felice. In particolare amava scoprire i giovani chef, perchè lui era come loro, altrettanto giovane nell’animo, ed inoltre voleva capire la trama della cucina di domani assaggiando i piatti della nuova generazione. E’ morto poco dopo un lungo giro al sud che l’aveva caricato a mille, ma non a sufficienza per vincere il male. E qui riportiamo la sua ultima tappa, non ha fatto in tempo a mandarci il suo commento se non che la cittadina di Nicastro era bellissima, il locale pure e Luigi Lepore, talmente bravo da meritare una stella.
Castel Giorgio è all’incrocio di tre regioni (Umbria, Lazio e Toscana) eppure sembra discosto da qualsiasi rotta, ma ringraziamo l’invito dell’amico Alessandro Natali per avercela fatta scoprire invitandoci a venire. Nell’intorno da Civita a Bolsena, da Orvieto alle Città del Tufo c’è un mondo bellissimo e qui, su una collina verde, tra prati e boschi sorge un nuovo resort a cinque stelle: La Chiaracia per offrirti confort e rigenerazione. La struttura si estende lungo il verde, moderna, confortevole, superaccessoriata (spa, fitness, sale conferenze ecc..) quasi senza traccia di un passato che probabilmente non esisteva neppure (forse un vecchio casale ora demolito) e, quasi a voler recuperare un po’ di radici, ecco il ristorante con appunto tale nome. La brigata è professionale: chef Stefano Faioli di indubbia esperienza, souschef Andrea Luisi e alla pasticceria la giovanissima Giada Bellaccini. In sala ci accoglie il direttore, giovane anche lui, Matteo Calcabrini con Maruro Clementi sommelier e Cristiano Arlandini secondo maitre. Un team coeso e motivato che deve comunque far fronte ai non pochi impegni di un 5 stelle (colazione, pranzo, cena, room service, eventi) ed infatti il menù non è sterminato, ma giudiziosamente contenuto. Si apprezza la cortesia del servizio, la buona volontà di fare tutto in casa, la cura nella presentazione delle ricette, il ricorso a molti ingredienti dei piccoli produttori locali. Però le “radici” non vengono fuori, chiudi e riapri gli occhi e di certo potresti stare in una qualsiasi parte d’Italia, con i sapori che non riescono a focalizzarti sul circondario, come il nome vorrebbe suggerire. Tra i piatti più riusciti un’elegante gallinella, e la linea dei dessert un pò ripetuta nello stile ma ben ispirata e realizzata dalla giovane pasticceria; tra le cose meno riuscite mettiamo i due primi.
Accanto al più evoluto progetto di Bros’ a Lecce, Roots nasce giustamente come alternativa campestre nel percorso gastronomico di Isabella Potì e Floriano Pellegrino. Alternativa che ci ha subito attratto ed eccoci finalmente in questa bella dimora con prato e orto sul retro che ha indubbiamente tante qualità: il semplice ma coinvolgente arredo, la cottura tutta a fornello come la tradizione vuole, il largo spazio dato alle verdure perlopiù prese dall’orto, la piccola ma curata selezione di vini pugliesi, il servizio affidato agli stessi ragazzi della cucina: Yuta Bise, Moustapha Ndiaye e Simone Princi. A noi è capitato quest’ultimo, il più giovane, ed è stato bravo ed efficiente. La proposta è imperniata sul menù degustazione, tanti antipastini, un primo, scelta tra due secondi e il dessert. Un po’ il pranzo della domenica ed infatti c’è una piacevole aria di casa. Però dobbiamo dire che, sarà la stima che abbiamo per Isabella e Floriano (purtroppo assenti), ci aspettavamo qualcosa di più dalla cucina. Di veramente buono abbiamo trovato i peperoni, la zucca ed i funghi tra gli antipastini (da cassare il fritto mediocre e appena tiepido), meglio la pasta al forno dei secondi e del dolcissimo dessert.
Un locale di stile e impatto moderno, accogliente (ma la luce giallina dell’interno non ci convince), con alla guida due fratelli Mirko e Tiziano, il primo al pane e ai dolci, il secondo a tutto campo. Menù di poche proposte elencate senza distinzione di ruolo (antipasto o primo ad esempio) che mostra fantasia e creatività. Sono autodidatti ma indubbiamente si sono preparati ed hanno studiato. Tutti i piatti assaggiati sono gradevoli e mostrano un pensiero dietro, anche se poi a tutti forse manca qualcosa per fare la differenza. Ma siamo in un locale dove con 39 euro ti fanno assaggiare 5 piatti sensati e non è poco. Il migliore? forse l’ottima melanzana in salsa bbq mal abbinata al caciocavallo, il meno interessante ? un Paris Brest (in realtà non un lungo ma un semplice bignè) appesantito da una spessa crema (ma Mirko prima ci aveva dato un ottimo pane). Ai vini Edoardo Ratti che mostra passione e professionalità consolidata.
Claudia ed Alberto Carretti ci hanno accolto con semplicità, ma tanta attenzione. Lui è un esperto enologo, ma l’avevamo conosciuto anni fa più per il parmigiano ed il culatello (altre sue passioni). Lo visitiamo per la prima volta a casa sua, e che casa! Una dimora nobile, con belle sale interne e intorno una vigna che negli ultimi anni sta decisamente crescendo sotto la guida attenta di Alberto. Tante sono le etichette e l’assaggio di alcune di queste ci conferma il percorso di qualità, per altro anche originale, che Alberto sta seguendo, impostando il lavoro in modo minuzioso ed attento ai dettagli che fanno la differenza. E non è solo vino: la colazione al mattino è un esempio con il buon pane fatto in casa, lo yogurt e le torte, è venendo al salato, quando si parla di salumi Alberto non sbaglia mai. Podere Pradarolo è un bell’esempio di ospitalità.
Il ristorante è storico, vanta 140 anni di vita e quindi va rispettato se non altro per la sua storia. Un ristorante quasi monotematico come è raro vedere, imperniato tutto sul baccalà con pochissime alternative, per altro ignorate dagli avventori che giustamente ordinano tutti il baccalà alla vicentina, ma non solo, perchè qui si coniuga in vari modi. Siamo con Laura Avogadri e Roberto Astuni, due ristoratori attenti, innovativi nei loro campi, ma giustamente attenti alla tradizione quando ben eseguita. Ed in effetti i piatti che arrivano sono più che accettabili e piacevoli anche oggi. Magari la sala, rimasta anch’essa fedele ad un ambiente fissato nel tempo, avrebbe bisogno di un sorriso in più.
Giancarlo Tavani è qui dal 2005, eppure sembra un secolo talmente bene si è inserito nel contesto e ha fatto di questa trattoria uno degli indirizzi più celebri e frequentati della regione. Merito di una cucina sapiente ed oculata che ripropone la tradizione, e qualche divagazione non azzardata a complemento. Il tutto in semplicità ma con un occhio alla carta dei vini e al suo servizio. L’arredo è rimasto semplicissimo, quasi basico (forse pure troppo, specie nella veranda estiva), ma un’occhiata ai prezzi fa capire come alto rimanga il rapporto prezzo qualità. Sul lato gastronomico si conferma una cucina più che affidabile e in sala Giancarlo è sempre l’oste che vorremmo trovare in tante osterie d’Italia.
E’ interessante venire in questo locale posto all’ingresso nord di Serravalle, uno dei borghi più belli d’Italia, che, come tante altre cose, ci appare oggi un po’ trascurato. Paolo Balbinot è un giovane maturo chef, con alle spalle un’esperienza di vita particolare: una decina di anni di cucina in Scozia, che ovviamente l’ha formato in modo originale. Tornato a casa (è di Vittorio Veneto), tenta una strada originale non facile: conciliare la wildness delle Highlands con gli ingredienti di casa nostra, soprattutto dell’orto e dei vicini boschi del Cansiglio. In due anni, segnati ahimè anche dal lockdown, il suo percorso è forse a metà, gli spunti interessanti ci sono, anzi sono tanti tra gli assaggi del suo menù (solo tre alternative di degustazione senza menù alla carta), ma a volte le ricette, affollate da tanti ingredienti, ci sono sembrate non perfettamente messe a punto. D’altronde a ricevervi solo in due: lui in cucina e Giada Vecchione in sala, il che si traduce appunto in qualche ovvia approssimazione e in una cadenza rallentata dei piatti. Sarebbe interessante rivedere questo progetto con una brigata al completo, per capire meglio il vero potenziale di Paolo Balbinot, che comunque già oggi secondo noi vale la visita. Tra le cose migliori: il pane, l’ottimo bignè iniziale, l’elegante cuore marinato, il sapiente uso della grassezza dei nervetti in ben due piatti completamente differenti, il volenteroso dessert.
Non “villa”, ma “casa” Maria Luigia e, nonostante il lussuoso confort che cerca di prevenire ogni desiderio dell’ospite, la sensazione rimane quella di una “casa”. Casa Bottura per l’appunto dove Lara e Massimo hanno portato qui i loro sogni e sono riusciti pure a realizzarli, per altro in tempi brevi. Il sogno è ancora aperto, forse ci saranno altre puntate, ma già quanto è in essere rende questo posto unico nel suo genere. Basta aprire il frigo della camera per capire che siamo in una struttura che è attenta a questo genere di cose, ma conoscendo loro c’era d’attenderselo. Come anche le opere di arte moderna appese alle pareti, come pure il buon gusto dell’arredo che ripercorre i grandi classici del design. La musica è un’altro amore di Massimo, e oltre 5000 vinili di musica classica jazz e pop sono a disposizione degli appassionati in un boudoir da sogno professionalmente attrezzato. Quello che sorprende è la semplicità dell’accoglienza, la professionalità del giovane team che è in esercizio da pochi mesi con anche un lockdown di mezzo e che sembra invece nato per riceverti. Abbiamo passeggiato sotto gli alberi secolari, tra le vasche degli ortaggi di un orto a stella, e ovviamente dormito, non nella Casa, ma nella nuova dependance, un gioiello di tecnologia, con lounge sala da pranzo e cucina anche questa a disposizione delle tre camere che contiene. Per ultimo la prima colazione, semplice ma diversa, rasenta la perfezione. Non le solite cose che potete trovare ovunque, ma è il territorio che vi dà il buongiorno con delle semplici (apparentemente) ricette che lasciano a bocca aperta, come il più buono ed elegante erbazzone mai assaggiato, la frittata di cipolle che chiamarla frittata ci pare un affronto, e potremmo continuare con lo gnocco fritto che sembra una nuvola, la focaccia dolce e salata ed altro ancora. Grazie Jessica per averci preparato queste bontà.