Il ristorante è storico, vanta 140 anni di vita e quindi va rispettato se non altro per la sua storia. Un ristorante quasi monotematico come è raro vedere, imperniato tutto sul baccalà con pochissime alternative, per altro ignorate dagli avventori che giustamente ordinano tutti il baccalà alla vicentina, ma non solo, perchè qui si coniuga in vari modi. Siamo con Laura Avogadri e Roberto Astuni, due ristoratori attenti, innovativi nei loro campi, ma giustamente attenti alla tradizione quando ben eseguita. Ed in effetti i piatti che arrivano sono più che accettabili e piacevoli anche oggi. Magari la sala, rimasta anch’essa fedele ad un ambiente fissato nel tempo, avrebbe bisogno di un sorriso in più.
Porzioni Cremona
Giancarlo Tavani è qui dal 2005, eppure sembra un secolo talmente bene si è inserito nel contesto e ha fatto di questa trattoria uno degli indirizzi più celebri e frequentati della regione. Merito di una cucina sapiente ed oculata che ripropone la tradizione, e qualche divagazione non azzardata a complemento. Il tutto in semplicità ma con un occhio alla carta dei vini e al suo servizio. L’arredo è rimasto semplicissimo, quasi basico (forse pure troppo, specie nella veranda estiva), ma un’occhiata ai prezzi fa capire come alto rimanga il rapporto prezzo qualità. Sul lato gastronomico si conferma una cucina più che affidabile e in sala Giancarlo è sempre l’oste che vorremmo trovare in tante osterie d’Italia.
E’ interessante venire in questo locale posto all’ingresso nord di Serravalle, uno dei borghi più belli d’Italia, che, come tante altre cose, ci appare oggi un po’ trascurato. Paolo Balbinot è un giovane maturo chef, con alle spalle un’esperienza di vita particolare: una decina di anni di cucina in Scozia, che ovviamente l’ha formato in modo originale. Tornato a casa (è di Vittorio Veneto), tenta una strada originale non facile: conciliare la wildness delle Highlands con gli ingredienti di casa nostra, soprattutto dell’orto e dei vicini boschi del Cansiglio. In due anni, segnati ahimè anche dal lockdown, il suo percorso è forse a metà, gli spunti interessanti ci sono, anzi sono tanti tra gli assaggi del suo menù (solo tre alternative di degustazione senza menù alla carta), ma a volte le ricette, affollate da tanti ingredienti, ci sono sembrate non perfettamente messe a punto. D’altronde a ricevervi solo in due: lui in cucina e Giada Vecchione in sala, il che si traduce appunto in qualche ovvia approssimazione e in una cadenza rallentata dei piatti. Sarebbe interessante rivedere questo progetto con una brigata al completo, per capire meglio il vero potenziale di Paolo Balbinot, che comunque già oggi secondo noi vale la visita. Tra le cose migliori: il pane, l’ottimo bignè iniziale, l’elegante cuore marinato, il sapiente uso della grassezza dei nervetti in ben due piatti completamente differenti, il volenteroso dessert.
Non “villa”, ma “casa” Maria Luigia e, nonostante il lussuoso confort che cerca di prevenire ogni desiderio dell’ospite, la sensazione rimane quella di una “casa”. Casa Bottura per l’appunto dove Lara e Massimo hanno portato qui i loro sogni e sono riusciti pure a realizzarli, per altro in tempi brevi. Il sogno è ancora aperto, forse ci saranno altre puntate, ma già quanto è in essere rende questo posto unico nel suo genere. Basta aprire il frigo della camera per capire che siamo in una struttura che è attenta a questo genere di cose, ma conoscendo loro c’era d’attenderselo. Come anche le opere di arte moderna appese alle pareti, come pure il buon gusto dell’arredo che ripercorre i grandi classici del design. La musica è un’altro amore di Massimo, e oltre 5000 vinili di musica classica jazz e pop sono a disposizione degli appassionati in un boudoir da sogno professionalmente attrezzato. Quello che sorprende è la semplicità dell’accoglienza, la professionalità del giovane team che è in esercizio da pochi mesi con anche un lockdown di mezzo e che sembra invece nato per riceverti. Abbiamo passeggiato sotto gli alberi secolari, tra le vasche degli ortaggi di un orto a stella, e ovviamente dormito, non nella Casa, ma nella nuova dependance, un gioiello di tecnologia, con lounge sala da pranzo e cucina anche questa a disposizione delle tre camere che contiene. Per ultimo la prima colazione, semplice ma diversa, rasenta la perfezione. Non le solite cose che potete trovare ovunque, ma è il territorio che vi dà il buongiorno con delle semplici (apparentemente) ricette che lasciano a bocca aperta, come il più buono ed elegante erbazzone mai assaggiato, la frittata di cipolle che chiamarla frittata ci pare un affronto, e potremmo continuare con lo gnocco fritto che sembra una nuvola, la focaccia dolce e salata ed altro ancora. Grazie Jessica per averci preparato queste bontà.
Il brunch, acronimo di breakfast e lunch può essere un po’ dell’uno o dell’altro, ma anche una terza via. E ci sembra che Lara e Massimo Bottura abbiano scelto quest’ultima. Non è un breakfast, non ci sono praticamente cereali, muffin, croissant e torte; non è un lunch e nemmeno il pranzo della domenica che in genere contempla poche tradizionali portate. Diciamo che è una specie di via di mezzo tra un picnic servito al tavolo per via della dimensione campestre, e un barbecue americano per la cottura (ma c’è anche il forno a legna oltre alla griglia e all’affumicatore) e la musica dal vivo. C’è convivialità, familiarità senza dimenticare le buone maniere con un servizio efficiente e puntuale, mentre dall’angolo cottura i ragazzi coordinati da Jessica si muovono con eleganza ma anche tanta precisione. Le portate si susseguono con il fumo che fa da filo conduttore e con il suo irresistibile richiamo che emana dalla zona forno, giocando spesso sul riuscito contrasto: amaro del fumo che rende croccante la superficie dell’ingrediente versus il dolce e il morbido dell’interno. Buono l’inizio con una pancetta completata dal pomodoro che sa di fumo e dalla ricotta al forno, sensazionale la frittata di cipolle senza cipolle (tolte alla fine) cotta a bassa temperatura nel forno con anguilla laccata. Ma è buono pure il resto, dall’elegante baccalà in leggera crosta alla costoletta di vitello anch’essa finita al forno a legna. Rinfresca il sorbetto, mentre un po’ troppo vischioso è il S’more please (una specie di marshmellow semiliquido). E poi il brunch è un modo anche di godersi della presenza di Lara e Massimo che, fuori dall’ufficialità dell’Osteria Francescana, qui ritrovano la loro vera dimensione e la voglia di divertirsi e inventarsi nuove formule di mangiare e di vita. E lo vedremo presto, quando con l’autunno il brunch prenderà nuova forma, quale? siamo anche noi curiosi di scoprirla.
Il locale è bello, moderno, arioso, affacciato sul lungomare con comodo parcheggio. La sera un’illuminazione corretta dà ulteriore slancio alla struttura che è anche non piccola: sono tanti i coperti nella bella sala centrale, che si raddopiano in stagione con l’uso della grande terrazza. Quantità che in questo caso si sposa alla qualità. I ragazzi di sala seguiti dall’occhio attento di Roberta Ramoscelli (sorella dello chef) si muovono con precisione e senza affanno, in cucina è Antonio Scarantino poco più che trentenne, origini siciliane e poi in giro per l’Europa fino a questa esperienza che lo vede cotitolare con la signora Simonetta Biagiotti. Ed il locale si è dimostrato piacevole non solo nell’ambiente e nel servizio, ma anche a tavola. Non tanto la lunga serie di stuzzichini di onesta ma diciamo normale professionalità, quanto i due piatti principali, il primo e il secondo, di ottima ideazione e realizzazione, mentre delude la parte dolce finale della cena.
Iera sera ci ha lasciato Roberto Tosca, per me non solo un collaboratore prezioso, ma soprattutto un grande amico. Infaticabile ed appassionato ci univano tante cose, l’amore per la ristorazione, e quello verso i giovani chef. Era incontentabile quasi come me, sempre attratto dalle novità, sempre in giro per scoprire i nuovi talenti, sempre alla ricerca del buono e dell’originale. Una curiosità insaziabile, un palato fine ed una generosità che non aveva uguali. Un vero galantuomo di altri tempi, corretto e cortese. Amava sorprendermi con i suoi messaggi. Arrivavano via whatsapp le foto dei piatti ed iniziava la gara: indovina dove sono? con l’orgoglio di far vedere che arrivava ovunque anche dove non te l’aspetti. E io gli dicevo bravo! e lui mi rispondeva: sei tu il maestro da te ho imparato tanto, ed invece sono io a ringraziare chi con la sua allegria e voglia di vivere la tavola mi faceva sempre ritoranre un pò fanciullo. Stamani quando ALberto Gipponi, un’altra sua scoperta e forse lo chef da lui più amato, mi ha dato la notizia, ho pensato che questo orribile anno non ci vuole lasciare. E’ come aver perso un fratello, con l’unica soddisfazione che è andato via contento, il suo ultimo tour tra Sicilia e Calabria l’aveva riempito di gioia per i tanti giovani e bravi chef visti all’opera. Caro Roberto mi mancherai davvero.
Arrivare al vertice è sempre difficile, ma ancora di più rimanerci. Abbiamo conosciuto proprio agli inizi Massimo Bottura, quando era ancora alla trattoria di Campazzo, prima di partire per New York, conoscere Lara Gilmore e da lì diventare il grande chef che è. Il successo spesso annebbia le idee, cambia il carattere, ti fa perdere il contatto con il mondo reale. In questo Massimo secondo noi, sostenuto da una grande apertura mentale, una cultura a tutto campo e una capacità di dialogo come pochi, riesce a mantenere il giusto equilibrio: cucina per i ricchi, alla sua tavola si siedono i VIP più famosi, ma non dimentica che c’è un altro mondo; ed è così sempre in prima linea anche con i suoi Refettori, con i tanti progetti di Food for soul. Non venivamo da un paio di anni ed eravamo quindi curiosi: la sua cucina come si sta evolvendo? Dal momento che amiamo quanto lui anche la musica, un pò di tutti i generi, dal jazz all’opera, ma anche quella pop, amiamo ovviamente anche i Beatles, siamo crexciuti con il loro sound (anche se poi abbiamo preferito i Pink Floyd). Sgt Pepper Lonely Hearts Club Band per chi ha vissuto quell’epoca è stato come uno squarcio che apre un nuovo mondo. Un passaggio dalle canzonette gradevoli, spigliate ma leggere tipo Please me, ad una musica di gran lunga più complessa, più in linea con i tempi, un preludio al cambiamento di stili di vita che ha accompagnato la cosidetta rivoluzione dei fiori. Godersi un menù che ne ripercorre in senso gastronomico i messaggi è non solo interessante, ma illuminante perchè in un certo senso apre anch’esso verso un orizzonte gastronomico diverso che potremmo sintetizzare con uno dei titoli del menù: cellophane flowers & kaleidoscope eyes. Pur non essendoci nel menù un piatto vegetariano, sono le erbe le foglie i fiori i veri protagonisti della lunga carrellata di pietanze non solo per il cromatismo di ogni presentazione ma per l’intenso effluvio dei loro aromi. La sequenza non è a scansione (es piatto acido, poi dolce, poi amaro ecc..) ma ogni piatto è un caleidoscopio non solo di colori ma anche di sapori, potremmo dire un doppio arcobaleno. Sorprende perfino il pane, la brioche iniziale che ci ricorda quella magica di Lenotre, qui viene completamente rivista per proporre non tanto la grassezza del burro quanto la complessità dei sapori che vanno dol dolce al sapido, un vero pasto a se stante. Un delicato e intrigante fish & chips è quello dello Yellow Submarine, una potente costruzione quella del risotto di Strawberry Fields dove dolcezza (riso e gamberi) acidità (fragole e lambrusco) aromaticità (pepe ed erbe) fumo e grassezza (mozzarella di bufala affumicata) si succedono nel palato in un lungo inseguimento. Il piatto che forse ci ha più colpito è il successivo: il merluzzo al curry verde, un piatto bellissimo di grande nobiltà, elegante, giocato con pochi protagonisti (il pesce, la salsa, e la sfumature del verde), senza tempo e luogo (il merluzzo e il curry sono ingredienti veramente universali) ma rimane nella mente come un capolavoro di arte moderna. Altro gran piatto è il piccione. L’unica osservazione che facciamo è sul piccione in quanto tale, fin troppo ricorrente in tutte le grandi tavole d’Italia (e non solo), ma qui vorremmo vedere un tacchino, un coniglio, meglio ancora il pollo! Ma tornando al piccione è di certo difficile trovarlo in una versione così raffinata, di consistenza quasi burrosa nel petto, di sapore deciso e ficcante nella crocchetta. Largo è lo spazio dedicato ai dessert, anche qui non ci si annoia: dalla cremosità intrigante della creme caramel all’effervescenza del Summer is coming, e alla golosità della nuvola di zucchero finale. Manca solo forse nel complesso una nota croccante più pronunciata. In sintesi un’esperienza che ci conferma che Massimo è sempre lassù, in alto, diciamo riprendendo i Beatles in the sky with or without Lucy, shining on the crazy diamonds (questa volta citando i Pink Floyd) dove i crazy diamonds sono i suoi ragazzi della sua brigata, ai quali sembra lasciare più libertà di esprimersi e di fare di quest’Osteria Francescana un posto senza necessario riferiemnto territoriale ma capace di spaziare lontano e interagire con il mondo. Ed è notizia di queste ore che Massimo è stato nominato Ambasciatore dell’ONU per i suoi meriti e la sua visione umnitaria. E’un riconoscimento che premia Lui, ma anche l’Italia tutta.
Un bel locale veramente quest’Impronta posta ad uno dei capi del famoso ponte di Bassano su ben tre livelli. Tre salette una sull’altra, la più spettacolare è l’ultima in fondo che gode da una parte della vista della bella cucina e dall’altra di un’uscita segreta al sottoponte, una visione suggestiva da non lasciarsi sfuggire. Accoglie Laura Avogadri titolare con Cristopher Carraro giovane chef esperto cresciuto con Berton, Cannavacciuolo e Bartolini che ha al suo fianco il giovane Nicola Crestani. Sono pochi ma anche i coperti alla fine sono pochi pur se in tre livalli, e sono misurati anche i piatti: una piccola carta verrà presto introdotta ma fondamentalmente la proposta si articola sui menù degustazione: 3 (vegetariano, classico e dello chef da 45 euro a 80 euro. Tutto sommato un prezzo interessante visto la qualità del locale. Cristopher sfoggia tecnica a tutto campo con una cucina accattivante e convincete: buoni gli stuzzichini iniziali, molto tecnico ma anche delizioso il finto raviolo alla brace di melanzane, corretta la chiusura dolce finale. Il piatto migliore? un’esemplare trota del Brenta con scalogno, un piatto centrato senza sbavature. Quello meno convincente: gli spaghetti fin troppo mantecati e ammassati dal baccalà e la sua maionese.
Un’osteria di pesce non sul mare, ma nel centro storico e forse per questo ancora più veritiera: menù alla lavagna, pesce fresco soprattutto quello veramente pescato nel mare di fronte, prezzi corretti. Basterebbe? Pensiamo di sì con due annotazioni, una negativa: i piatti cucinati sono decisamente frettolosi e poco curati, una positiva:, la sala, nonostante il pienone abituale, funziona alla grande puntuale e cortese. E non è rara questa cosa soprattutto nelle locali di questo genere. Merito del titolare, Christian Ghena, appasisonato anche di vini e si vede, riesce ad accontentare non solo il sottoscritto, ma anche Alessandro natali compagno di tavola e produttore di champagne.