Andare da Pipero è un pò come andare a scuola: ogni volta si impara qualcosa. Entriamo e la sala è piena di italiani a tutti i tavoli, quando fino a pochi mesi fa la metà erano sempre stranieri. I problemi li ha avuti lui, e li ha ancora, come tutti gli altri, ma di certo sa come affrontarli. I meriti sono tanti, la sua accoglienza è leggendaria, il servizio di sala ti segue al tavolo con i guanti coccolandoti senza nemmeno fartelo pesare, e anche in cucina Ciro Scamardella con i suoi si destreggia ad alti livelli. E’ curioso come la cucina di Pipero sia avvertita e citata come “cucina romana”, (c’è anche questa, pensiamo alla mitica “carbonara”), ma qui c’è ben altro, direi rimandi di “grande cuisine” come in pochi altri luoghi di città. Pensiamo ad esempio all’ineffabile ed elegante terrina di foiegras e funghi che potresti essere in un tre stelle parigino, o alla perfetta salsa chamapgne che fa passare quasi in secondo piano il buon rombo. Una cucina che non insegue il rischio inutile, che spesso non paga, ma che si apprezza nello scorrere della cena, dalla serie di finger foods iniziali (forse solo un pò troppo invadenti), alla buonissima tartara e al risotto ben equilibrato. Meno convincente ci sono sembrati i ravioli (troppo sapidi e concentrati), e torniamo in alto con il sopracitato rombo e la dolce animella ben contrastata dal wasabi. Si chiude con i dessert, buoni, ma li vorremmo un tantino più spettacolari.
Achille Sardiello
Non ci sarà la vista panoramica di una terrazza romana, ma l’aria condizionata assicura una temperatura ideale, la sedia una comodità perfetta, i tavoli sono a distanza rassicurante, i vini alla giusta temperatura e serviti nei migliori bicchieri in circolazione. Insomma che questa sia una gran sala ce lo dicono i fatti e non solo la presenza di Pipero (con le stampelle per un incidente, ma sempre vispo e attento ad ogni dettaglio). La sala è senza orpelli, essenziale nei contenuti. La cucina è affidata al giovane ed esperto Luciano Monosilio cresciuto con i consigli di Pipero (al quale non difetta il palato). Ma questa volta non c’è ed è Davide Puleio, il suo braccio destro, a dirigere la brigata. Cucina che si conferma tra le più interessanti della Capitale, con una serie di piatti ben congegnati e riusciti, dove, rispetto alle esperienze precedenti, magari si rincorre un tantino di più il gusto con qualche nota rotonda, a volte ridondante, rispetto all’essenzialità esemplare di certe preparazioni. (Ma secondo noi l’ideale sta in una giusta alternanza tra succulenza e minimalismo). I piatti migliori? secondo noi l’anguilla e il capretto (accompagnato da un kebab esemplare). La cosa peggiore? il cestino del pane.