E’ il più maturo dei giovani chef, il più schivo, il meno mediatico, forse il più bravo o comunque tra i cinque più citati sui quali tutta la critica concorda. Non sarà un caso, quindi ci siamo ristorati volentieri in questo grazie anche all’aiuto logistico di Roberto Tosca, un galantuomo gastronomo che ha pochi rivali. Nulla all’esterno fa presagire l’interno: in perfetto equilibrio tra il moderno e l’antico, tra la soluzione innovativa e quella della nonna, tra il mondo circostante e gli stimoli che arrivano da lontano. Il modello è forse quello dell’Osteria Francescana, ma pur essendo vissuto alla corte di Bottura per un anno Alberto Gipponi ha saputo assorbire tanto ma è anche riuscito a rimanere originale. Il Dina è curato in ogni dettaglio come atmosfera ed arredo, e lo stesso vale per i piatti. Apparentemente si sono perfino semplificati rispetto a quanto a suo tempo assaggiato. Ma è un’apparenza, Alberto si esprime con una serie di messaggi precisi ma tecnici. La tazza è ricorrente, rassicurante come quella della nonna, scandisce sapori netti (il brodo di tutto, le lumache, i funghi, il riso dolce) quasi un percorso nel percorso. E tra una zuppa e l’altra arrivano i messaggi potenti: iodato sferzante (la seppia) succulento morbido (la terrina) sapido (la cozza) amaro (gli spaghetti al verde delle erbe (un capolavoro coraggioso) in una scansione esemplare quasi didascalica. Difetti tecnici ce ne sono pochi a nostro avviso: il soufflè non ben eseguito, gli abbinamenti poco precisi non del vino ma dei complementari al piatto principale (i datteri, le chip). Ultima annotazione sulla sala: eccellente e professionale, ma forse (anche a detta di qualche altro collega) non stonerebbe un sorriso e un pizzico di allegria in più.
Alberto Gipponi
Eravamo un pò prevenuti. Sapevamo che il cuoco era preparato, ma sapevamo anche che aveva curato ogni dettaglio, dai materiali dei vari ambienti, ai differenti stili e colori, dalla grafica ai titoli dei vari menù e piatti (tutti nomi di fantasia, e questo non è che ci piaccia tanto). Un locale poi aperto solo di sera e non la domenica pur essendo una Casa in campagna, intitolata per altro a nonna Dina. Eravamo insomma un pò prevenuti: ci sbagliavamo, per vari motivi. Lui, Alberto Gipponi, varie esperienze ma quella importante è un anno alla Francescana, è persona matura e non il giovane esuberante smanioso ed ambizioso che avevamo in mente. E’ maturo sia per l’età, ormai vicina ai 40 anni, sia per il retroterra culturale che lo anima. Ma il suo atteggiamento, pur se leggermente pesante e fin troppo minuzioso nel dettaglio didascalico delle presentazioni, è di disarmante semplicità e questo gli fa onore. Stiamo parlando di lui, e non dei piatti, perchè siamo di fronte ad un locale fortemente identatario dove la personalità del cuoco è immanente e veste qualsiasi cosa, anche le luci e le posate, la scritta di benvenuto e il sapone della toilette. Quasi non vorremmo, ma qualcosa sul cibo poi dobbiamo pure dire, perchè questo è un ristorante alla fin fine. E anche su questo versante Alberto è maturo, in grado di proporre piatti classici del territorio di ottima fattura, ma di certo ha la tendenza ad andare per la sua strada emozionale. E’ già un gigante sui brodi, di vario tipo, che lungo il percorso hanno inframezzato il menù. Ci è mancato solo l’ultimo, prima dei dessert, sostituito da un più pesante ma improbabile (per la posizione) risotto, mentre le note del balsamico rinfrescante sarebbero state coniugate meglio anche qui dal brodo, come filo conduttore. E’ bravo anche nell’armonia e negli equilibri delle composizioni prevalentemente vigetali come gli eleganti agretti e la sensazionale zuppetta servita nel thermos a bidoncino. Secondo noi deve ancora crescere nei piatti più complessi (vedi l’agnello e il fegato) e nei dessert, ma, diciamolo pure, qui c’è già tanta roba da far felice qualsiasi palato.